Intervista a Pino Fusari, psicoterapeuta, esperto in dipendenze patologiche
A proposito di uso di sostanze e dipendenze abbiamo avuto il piacere di intervistare Pino Fusari, psicologo, psicoterapeuta, referente regionale per le dipendenze patologiche al CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza). Da circa 30 anni impegnato nel campo delle dipendenze patologiche e della salute mentale, da sempre in prima linea nell’offrire supporto e consulenza a persone con fragilità, anche al di fuori dell’ambito prettamente lavorativo.
Pino negli ultimi anni di cosa ti sei occupato in particolare?
Ho lavorato soprattutto nelle comunità con le dipendenze. Io la chiamo una sorta di restituzione: cioè permettere alla comunità di riflettere su quella che è la vita delle persone che vengono in comunità, restituire un senso all’aver accolto così tante persone e lì dove possibile aiutare anche un po’ nel campo della prevenzione o del sostegno, dell’aiuto anche alle persone che rimangono fuori dalla comunità sia che si tratti di persone che usano sostanze sia che si tratti delle loro famiglie, perché nel modificarsi del sistema sanitario nazionale la coperta sempre più corta lascia scoperte esigenze, bisogni di ascolto, di aggancio. Anche i fenomeni non sono più quelli per cui erano nati i servizi, non sono più tarati su quel tipo di risposta, sono bisogni un po’ più complessi o per fasce di età diverse e che hanno modifiche importanti rispetto all’idea di bisogno: non parliamo più tanto di dipendenza ma di problemi relativi all’uso, all’abuso. La sento come una sorta di missione, mi sento il dovere civile e morale di restituire qualcosa alle persone.
Com’è oggi la vita all’interno delle comunità?
La vita nelle comunità è cambiata per fortuna e ancora deve cambiare. L’ideologia che reggeva le prime comunità era del tipo “io ti salverò”, per cui chi faceva uso di sostanze veniva definito come tossico o drogato o vittima alla quale corrispondeva questa visione salvifica. Visione che poteva passare anche dal concepire il consumatore di sostanze come malato alla quale corrispondeva la sua medicalizzazione. Oppure il concepirlo come artefice del suo stesso male, colpevole, vizioso e a cui in comunità corrispondevano servizi che servivano quasi a punire ed espiare. Secondo questa visione superata le comunità erano un postaccio in cui andavano a finire i peggiori.
Ma nel tempo per fortuna le comunità sono cambiate, è cambiato il rapporto con le persone ed è cambiato l’operatore stesso, accettando l’incertezza e il fatto che la persona che hai di fronte ti possa insegnare qualcosa.
Io ho cercato di comprendere cosa volesse dire riduzione del danno fin dall’inizio: siamo stati la prima comunità in Sicilia che ha accettato la possibilità che le persone potessero venire col metadone. Quindi abbiamo cambiato la comunità nell’accettare queste forme: il metadone, l’ausilio dei farmaci, lo stare attenti, il cercare di compensare con lo psichiatra ciò che doveva essere contenuto in un modo o in un altro. La maggior parte degli operatori ci siamo resi conto di che cosa significava accogliere la persona che fa uso di sostanze e di quanto ci fosse dietro, dentro la persona e di come tutto ciò andava valutato, amplificato, di come andavano prevenuti i problemi relativi all’uso e non semplicemente combattere l’uso. Noi come comunità abbiamo capito che non si potevano lasciare le persone sole proprio nel momento della ricaduta, abbiamo capito che l’accoglienza è qualcosa che non si fa a gradi e a dosi, si fa e basta, fino a quando ce n’è bisogno o fino a quando la persona lo accetta.
Ma noi all’inizio non accettavamo facilmente che la persona potesse ricadere e quindi la rimandavamo a casa, al Sert, non la facevamo più rientrare. Inizialmente le persone dovevano disassuefarsi fuori dalla comunità ed entrare quando erano “pulite” da qualche giorno, ed aveva un senso perché non tutti ce la facevano. Invece accettando poi il metadone abbiamo accettato che le persone potessero venire col sostitutivo o con il relativo farmaco di sostegno e che quindi potessero venire addirittura “fatte” di eroina, oggi con la cocaina abbiamo persone che si fanno l’ultimo tiro di crack poco prima di varcare il cancello della comunità e non ci sconvolgiamo più. L’unica cosa che imponiamo è che non si usino sostanze in comunità, ma non tanto per una legge di decoro quanto per gli altri, perché chi viene in comunità si aspetta di essere un po’ più protetto.
SIAMO STATI LA PRIMA COMUNITÀ IN SICILIA CHE HA ACCETTATO LA POSSIBILITÀ CHE LE PERSONE POTESSERO VENIRE COL METADONE
Sono contento di come è cambiata la comunità, possiamo fare ancora di più e ci stiamo lavorando, ad esempio sul tempo di durata: i tempi prima erano molto standardizzati, scansionati per periodi di attività, tutto questo è stato abolito perché ogni singola persona che viene da noi ha esigenze diverse e ha bisogno di risposte sufficientemente differenziate. Cerchiamo così di sopperire anche alle assenze, ad esempio al fatto che non abbiamo “residenze leggere” o comunità a bassa intensità terapeutica come ad esempio in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna e non possiamo nemmeno mandare le persone lì perché la nostra Asp non paga questo tipo di rette. Accogliamo anche persone con HIV o HCV (epatite), quest’ultima si risolve con 2-3 mesi di farmaco, mentre per quanto riguarda l’HIV la qualità della vita è cambiata ed oggi si può condurre una vita normale grazie ai farmaci.
Il problema è il servizio pubblico, ad esempio per tutto ciò che riguarda il know how. I colleghi nuovi che arrivano non avranno mai tutte quelle conoscenze dei colleghi più anziani: quando un collega se ne va in pensione e ha seguito una persona per 20-25 anni spesso non ha il tempo di passare il suo know how a chi lo sostituisce e se il nuovo arrivato non avrà alle spalle il supporto di chi ha l’esperienza avrà un carico di lavoro che non potrà gestire bene.
Riguardo all’uso di sostanze come si presenta la situazione a Catania attualmente?
C’è stato negli ultimi anni un peggioramento per quanto riguarda le cocaine, le chiamiamo al plurale perché ce ne sono più usi e ogni preparazione ha un suo utilizzo e un suo target, perché è vero che in passato eravamo abituati all’uso di molta cocaina ma non a questa epidemia di persone arrivate alla cocaina attraverso il crack. È un fenomeno paragonabile all’epidemia di eroina negli anni 80. Tutto questo per una serie di concause: la cocaina prodotta, il cambiamento e la pressione sulle piazze di spaccio, il cambiamento della preparazione della cocaina a crack, il bisogno di sfoltire il magazzino di cocaina che si era accumulato e anche un’organizzazione interna non solo più efficace ma più di risposta agli arresti che arrivavano, perché più ne arrivano più le famiglie hanno bisogno di avere introiti.
Il punto è che il crack avendo una sua dinamica d’uso molto particolare, perché dà subito un maggiore bisogno, rinforza il rapporto con la sostanza in maniera immediata. Utilizzato anche in quantità così minuscole permette un accesso facile anche ai più giovani o a persone meno abbienti (parliamo anche di dosi vendute a 5- 8 euro), motivo per cui il crack lo troviamo soprattutto nelle fasce più povere della città.
Le grandi piazze sono qualcosa che funziona più per l’hinterland, invece il catanese di quartiere si organizza con lo spaccio nel quartiere, ma non soltanto nel quartiere grosso, anche nella via, perché c’è sempre qualcuno che ha imparato a cucinare la cocaina e a farla diventare crack e quindi organizza un microspaccio fatto per persona, anche con l’ausilio di canali social come telegram e whatsapp. Stanno comparendo anche forme diverse, per fortuna da noi i fentanili non sono ancora arrivati, cominciamo ad avere invece più casi sulle marijuane o sui cannabinoidi sintetici, cioè sostanze che puoi acquistare anche su internet, vendute anche legalmente come profumatori d’ambiente ma che in realtà sono droghe sintetiche potenziate. Inoltre c’è una selezione genetica di marijuana per ottenere un principio attivo sempre più forte.
Quando ho letto della Germania che approvava una legge sulla legalizzazione della marijuana sono stato sinceramente tanto favorevole, io penso che il proibizionismo non abbia prodotto nulla se non incrementare la curiosità.
LEZONEINCUISIFAPIÙ USO SONO QUELLE DOVE CREDO CI SIA PIÙ SOLITUDINE, DOVE CI SONO MENO ALTERNATIVE
Per quanto riguarda Catania ci sono delle zone e delle fasce d’età in cui l’uso è più consistente rispetto ad altre?
Le zone in cui si fa più uso sono quelle dove credo ci sia più solitudine, dove ci sono meno alternative. Il problema è che se mancano altre gratificazioni, altre possibilità di interazione con gli altri o manca uno sviluppo più sano allora ti viene più facile avvicinarti al mondo dell’uso. Le fasce degli adolescenti sono sicuramente quelle più soggette a questo vuoto di senso, la paura, il non sentirsi delle possibilità, delle speranze, il non avere quel legame tra sé e il territorio, il gruppo, a partire anche dalla famiglia. Ma è anche tutto il discorso legato al consumo verso cui siamo educati adesso e senza il consumo di qualcosa, un’immagine, un brand, un oggetto, una serata si creano vuoti. Sono quei vuoti che mettono paura e che vanno riempiti.
Ci sono delle scuole che fanno dei gran bei lavori, ma solo alcuni ragazzi hanno già gli strumenti per comprendere questo lavoro mentre quelli che non hanno dentro strutture cognitive sufficientemente pronte non elaborano quell’esperienza anzi la vedono quasi come un’invasività. Se quindi tu ragazzo/a ti porti dentro quel vuoto dalla mattina alla sera e non c’è nessuno che si chiede cosa vuoi dalla vita, cosa ti manca, cosa provi, come stai, a quel punto il consumo diviene una sorta di religione.
I bambini adultizzati, come quelli che a 12 anni smettono di andare a scuola e vanno a lavorare e che a 18 diventano rapinatori o utilizzatori di sostanze non sono persone vuote, sono solo bambini che non hanno avuto il tempo né nessuno che gli abbia insegnato a viversi la loro età di bambini. Quindi dobbiamo differenziare il discorso dell’uso quando diciamo se è peggiorato e dove è peggiorato. In tutto questo quadro però non abbiamo più i servizi di prima e quindi anche il lavoro di prevenzione viene a mancare.
Hai anticipato la domanda che stavo per farti, cioè su quali sono secondo te le carenze a livello pubblico.
Il grosso problema che viviamo attualmente e che non si riesce a riconoscere è che sotto l’investimento sulla salute mentale da noi in Sicilia ricadono: la salute mentale, la neuropsichiatria infantile e le dipendenze, a parte questo abbiamo poca spesa anche per i consultori, strutture fondamentali per una prima consulenza, in particolare mancano i colleghi dei consultori familiari.
Per esempio necessario sarebbe poter mettere insieme i consultori ed i servizi per le dipendenze in una campagna di prevenzione e di monitoraggio per le sindromi fetali attribuibili all’uso si sostanze psicoattive ed alcol.
I dati sono sempre più allarmanti e poco studiati, sottostimati quasi, non compaiono neanche nell’ ultima relazione al parlamento da parte del DPA (Dipartimento delle Politiche Antidroga). Sono moltissimi i casi in cui il maltrattamento dei minori comincia con questi comportamenti, che significano, fin dalla gestazione, dei grossi problemi per il nascituro. A Catania sono state inoltre costituite le cosiddette EMI, le Equipe Multidisciplinari ad alta Integrazione. Cosa sono queste EMI? Sono delle equipe che funzionano soltanto per i tribunali. Ognuna di queste equipe è composta da un neuropsichiatra infantile, uno psicologo e un assistente sociale. I primi due dipendono dall’Asp, l’assistente sociale dipende dal Comune. Quindi hanno assunto per il momento a tempo determinato, in funzione soltanto della richiesta del tribunale. Vuol dire che una sanità così come ce l’abbiamo noi, che non ha più soldi da spendere e li spende lì, continua a lasciarmi scoperto il territorio, e tutto quello che ha un minimo di penale o civile lo manda alle EMI, col risultato che le EMI si stanno intasando e il territorio rimane scoperto perché le Asp non hanno più soldi da spendere. Ciò vuol dire che in posti come Librino e San Cristoforo la gente non avrà mai quella prossimità con il servizio. Si è persa quella bellezza dei servizi degli anni 70, di tutte le leggi fatte per i servizi territoriali.
Così facendo tu non abitui le persone a stare vicino ai servizi, porti avanti solo una logica sanzionatoria e/o di controllo, dove lasci le famiglie abbandonate a se stesse; tutta l’operazione per i tribunali è un successo, perché avranno un unico “sportello” a cui rivolgersi, ma per i territori e le persone non lo credo, vedremo. Io penso che sia necessario invece far partire i programmi territoriali ed i servizi devono accompagnare positivamente le persone, poiché sono cura a disposizione soprattutto delle fasce più vulnerabili. Le EMI inoltre possono prendere in carico per un massimo di 10 incontri, togli 3-4 incontri per la valutazione, possono farne altri 4-5 e stop. Che non possono mai essere sufficienti. Ed è chiaro che non possono assumersi un onere più grande perché quello spetta al territorio. Sai cosa significa, altro esempio, che un ragazzino minore trasferito dalla famiglia che va a finire in comunità e ha dei problemi di dislessia non lo possiamo mandare a fare la logopedia perché le liste d’attesa sono ciclopiche? Il risultato è che la gente si allontana, ovviamente, dai servizi.
IO CREDO MOLTO NEL SISTEMA DI AUTO E MUTUO AIUTO, QUESTI SISTEMI INTEGRATI FUNZIONANO
Cosa può fare secondo te la comunità a livello associativo e di cittadinanza attiva per sostenere chi fa uso di sostanze?
Dobbiamo innanzitutto distinguere tra chi usa le sostanze e lo farà probabilmente a vita senza arrecare danno a se stesso o al prossimo, che non ha bisogno di alcun supporto e non lo chiede, e quelli che invece chiedono il sostegno e che avrebbero sicuramente bisogno di servizi più vicini. Ma immaginiamo anche la situazione di pre-domanda, dove la persona non ha neanche la consapevolezza di avere un bisogno di aiuto, ecco perché i servizi di prossimità, la riduzione del danno, le informazioni, il drug checking, tutte queste cose servono a distinguere, così come servono le regole: proibire di guidare la macchina se sono ubriaco è normale, non è proibizionismo. Regole chiare che permettano alla gente di vivere e che diano la possibilità di capire se c’è un problema o no. Tutti gli altri, noi, siamo quel collegamento che può esserci tra noi e quelli che hanno bisogno di aiuto, io credo molto nel sistema di auto e mutuo aiuto, ho fatto anche i gruppi per gli alcolisti in trattamento, con le famiglie, e anche questo era bello, questi sistemi integrati funzionano.
PURTROPPO C’È ANCORA UN PUDORE NELL’AFFRONTARE QUESTE TEMATICHE, QUELLA CHE NOI CHIAMIAMO MIOPIA FAMILIARE
A volte i servizi sono centrati sulle proprie esigenze, non è facile stare ad ascoltare veramente o mettersi nelle esigenze degli altri, quindi noi come società civile siamo quell’aiuto per far rimanere umana la forma di cura, l’accesso, la visibilità. Tutti noi possiamo incorrere in un momento di fragilità, per cui mantenere la sensibilità per le persone e aiutare gli altri a riconoscere un problema è già tanto. Essere presenti nel sistema di cura. In una provincia come Catania quando trovi soltanto o servizi di cura come Sert o come comunità hai coperto all’incirca solo il 50%, tutto il resto è costituito dalle comunità più leggere, i centri a bassa soglia, le equipe di strada. Noi siamo qui a parlare di questo dopo quanti anni? Per quanto tempo in questa città non se ne è più parlato? Per quanto tempo questo discorso è rimasto nella nicchia dei servizi specialistici?
Pino rispetto alle famiglie che non riescono a gestire al loro interno parenti che fanno uso di sostanze, qual è secondo te l’errore più comune che viene commesso nel gestire queste situazioni e cosa consiglieresti?
Intanto parlarne, cercare risorse anche all’interno della stessa famiglia, parlarne anche oltre l’evento. Purtroppo c’è ancora un pudore nell’affrontare queste tematiche, quella che noi chiamiamo miopia familiare, il padre e la madre che non vogliono vedere quello che fa il figlio. Parlarne non solo in quanto persona che fa uso di sostanze ma tentare di ricostruire quel discorso sul senso, sul vuoto e quindi utilizzare tutte le risorse possibili: parlarne con gli altri, chiedere aiuto, cercare aiuto per capire. È difficile per un genitore uscire fuori dalla sua posizione per ascoltare veramente il figlio, abbandonare le ansie, le aspettative, i progetti che si proiettano, o accettare la frustrazione perché c’è una negazione, una colpevolizzazione, a volte una scissione. Tutti questi elementi non sono facili da condurre da soli e a dare aiuto non devono essere per forza i professionisti ma anche qualcuno che ha già vissuto l’esperienza e l’ha superata, torniamo al discorso dell’auto e mutuo aiuto che può essere una grande risorsa, perché non è facile accettare che questa cosa accada, soprattutto se partiamo da tutte le etichette che abbiamo appiccicato a questo fenomeno, alle persone che usano sostanze.
C’è sempre una dinamica che conduce all’uso e all’assuefazione via via più problematica, ci sono poi anche gli incontri sbagliati al momento sbagliato ma c’è sempre qualcosa che motiva un’esposizione emotiva in più, quindi per capirla, riprenderla e ricollocarla consapevolmente dentro questa dinamica bisogna farci necessariamente un lavoro. E allora se c’è qualcuno che è un minimo esperto, non importa che sia anche un padre spirituale, non ho niente contro nessuna chiesa o religione, però è importante condurre un lavoro un po’più approfondito, il privato non lo puoi dare in pasto a nessuno. Mi viene in mente la faccenda di Giulio Zavatteri, quel ragazzo che è stato il secondo morto a Palermo che ha fatto nascere tutto quel movimento attorno a Ballarò.
Il padre gestiva una grossa farmacia a Palermo, il figlio aveva dato diversi problemi, era finito in comunità fin da piccolo, la famiglia aveva cercato di fare tutto il possibile, ma una mattina Giulio muore in casa per overdose di crack. In quel caso c’è un’esposizione pazzesca perché il padre ha volutamente fatto accendere i riflettori sul caso, ha partecipato alla creazione di questo movimento. Quando ha organizzato un convegno a Palermo sul consumo di cocaina a cui ho partecipato, i primi 5 minuti sono stati dedicati ad un video in cui scorrevano le immagini del figlio, mediaticamente una cosa molto forte anche perché la sala era piena, eravamo all’università.
Lui rappresenta un po’ la conversione del dolore, è un tentativo di utilizzarlo a fini sociali, ma in generale non puoi utilizzare le famiglie così, devi dare loro una possibilità di lettura di sé a volte anche individuale per cui servono persone e servizi che siano capaci di farlo, tutto un background che noi non abbiamo più, perché non ci sono più i colleghi che organizzano questo tipo di gruppi di sostegno, man mano che vanno in pensione si perdono questo tipo di attività. Per cui cosa dai alle famiglie? L’unica realtà che ancora resiste e che costituisce un valido supporto per le famiglie sono i gruppi di auto e mutuo aiuto. Per il resto non c’è più la capacità di creare rete tra i servizi.
Poi quando vedo realtà come l’Arci, quando vedo la possibilità di poter insegnare a qualcun altro, anche a giovani colleghi che incontro, un altro modo di stare nel nostro mondo quando stiamo per fortuna riuscendo a liberarci da alcune etichette, da un modo quasi classista di vedere le persone, lì torno ad avere speranza, vedo che comunque ci sono tante realtà che funzionano, penso ai Briganti di Librino, al Talita Kum, al Midulla, a Trame di quartiere, a Save the Children con Civico Zero e mi viene voglia di costruire qualcosa insieme a loro e tanti altri.
Di Marco Salanitri
Comentários