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  • Marco Salanitri

DALLA CRISI ALLA VOCAZIONE

Intervista a Daniele Vita

Di Marco Salanitri
















Daniele Vita, fotografo di origini siciliane, nasce in provincia di Viterbo e riscopre la Sicilia a posteriori, trasferendosi a Catania dove vive da qualche anno. Dopo l’incontro casuale con la fotografia abbandona gli studi antropologici a pochi esami dalla laurea per dedicarsi anima e corpo alla sua passione che vi raccontiamo in questa ricca intervista.


SALANITRI: Come nasce il tuo amore per la fotografia? Ricordi qualche evento determinante che ti ha fatto scattare quella sorta di click illuminante?

VITA: Ero all’università, Beni culturali, e al primo anno c’era un mio amico che si comprò la classica reflex e io, affascinato da questa cosa, me la comprai pure e iniziai a fare foto completamente da autodidatta. A un certo punto un mio amico dell’Accademia di belle arti per l’esame di fotografia mi porta con lui in camera oscura all’Accademia e lì c’è stata una folgorazione. Mi sono fatto la camera oscura nel casolare dei miei genitori e da lì ho iniziato. Poi mi sono trasferito a Sociologia seguendo gli indirizzi antropologici, il click forse è stato quando il mio professore di etnografia (la sua materia era la bestia nera della facoltà) ci fece capire che il mestiere dell’antropologo non era semplice, mise tante cose in discussione e io

come tanti ci siamo dedicati ad altro. Da lì ho lasciato l’università, a pochissimi esami dalla tesi, e mi sono messo a fare foto, cercando di sopravvivere di questo mestiere. Per noi fotografi oggi è complicato, uno su un milione ce la fa.


Ma i social non aiutano ad emergere?

Partiamo dal fatto che in Italia c’è poca cultura fotografica, nei programmi scolastici non esiste un’educazione all’immagine, le mostre fotografiche con maggiore affluenza sono ancora quelle di Salgado, di McCurry, tutto il rispetto per questi bravissimi fotografi, ma poi ci sono tanti festival con eccellenti proposte spesso però frequentati da addetti ai lavori. In mancanza di questa cultura fotografica sono i social a dettarla e nella guerra dei like ti ritrovi persone che hanno un miliardo di like e che sono riconosciute come fotografi pur non essendolo o in parte. E io ogni tanto mi chiedo tutti questi cuoricini quanto valgono.


Tu sei originario di Viterbo, come sei arrivato a Catania e com’è stato l’impatto con la città sia a livello di qualità della vita che da fotografo?

Sono figlio di un favarese migrato a Viterbo e mai tornato. Io al contrario di molti nipoti siciliani non ho trascorso le classiche estati in Sicilia perché i miei nonni ci sono tornati quando ero già grande, per cui ho sentito sempre la mancanza delle mie origini e me le sono andate a cercare. Nel 2010 sono sceso la prima volta per scattare delle immagini per la settimana santa di Trapani. Poi anni fa ho conosciuto una ragazza e mi sono trasferito a Catania col mio bel furgone appena acquistato che mi hanno rubato dopo poco tempo. In quel momento ho capito come funzionava questa città, ho avuto il suo battesimo. All’epoca avevo una di queste macchine molto piccole e da lì, per 3 anni, ho iniziato a fare foto quotidiane in questa città, come disciplina. Foto che non sono riuscito a rivedere neanche durante il lockdown, forse il giorno in cui andrò via da Catania lo farò.


Quindi è tutto materiale inedito?

Sì, io le scarico, le guardo sommariamente. Ho più di 500 cartelle, seguo molto l’adolescenza, e da tutto questo materiale ho tirato fuori due lavori su questo tema fatti a Catania. Uno è una realtà che purtroppo il covid si è portato via, che adesso sta rinascendo sotto altre forme, si chiamava San Berillo Calcio Junior, praticamente si era creata una squadra popolare di ragazzini che si riuniva la domenica pomeriggio a Piazza Carlo Alberto. C’erano tre allenatori che si erano dedicati, in maniera del tutto volontaria e autogestita, a creare una squadra di calcio aperta a tutti, il limite di età era fino ai 15 anni. Questa era una storia bellissima perché metteva insieme i ragazzi di tutte le etnie, c’erano anche i catanesi ma erano una minoranza. Lavoro che purtroppo nessuno ha mai pubblicato ma ha rischiato di vincere 2 volte il Word Press Photo, un prestigioso contest mondiale, il primo anno con una foto, il secondo con tutta la story. A settembre farò una mostra a Torino. Ma paradossalmente è un lavoro ancora inedito.


Nei tuoi ultimi lavori, specie quelli sviluppati a Catania, ti sei dedicato alla vita di questi ragazzi di quartiere, c’è qualcosa in particolare che ti ha spinto verso questa scelta?

È una fase della vita interessante, dove si creano le basi future. Viviamo in un mondo dove l’accesso alle risorse non è uguale per tutti, questo vuol dire che chi nasce a San Cristoforo o Librino avrà meno probabilità nella vita di farcela rispetto a uno che nasce a Corso Italia. Io provengo da una famiglia che non è ricca, sono figlio di una casalinga e di un operaio che per loro fortuna sono vissuti in una campagna e non in un quartiere di una città, però tutto questo me lo sento dentro. Spesso questo mestiere è per persone che hanno una buona base economica alle spalle.


Però ci sono anche le Vivian Maier no?

Lì la cosa brutta è il fenomeno un po’ da baraccone che si è creato, lei è stata scoperta giustamente come grande fotografa, ma poi il sistema ne ha creato il profitto. Mi chiedo quante Vivian Maier ci sono in giro rimaste sconosciute?

Ce ne sono tantissime ma ciò che mi colpisce in positivo è la vocazione, il concepire la fotografia come una missione al di là del successo che ne possa scaturire o meno. Sì certo, a me interessa vivere il momento e scattare, il rivedere le foto non m’interessa immediatamente. M’interessa ma in un momento diverso, io sto bene mentre faccio foto, sto bene solo lì, già adesso sto male perché non sto scattando. Nel momento in cui rivedi la selezione, metti insieme le foto, fai l’editing, quello è un lavoro molto complesso che richiede altri tempi, però se io nella vita potessi scegliere, se mi dicessero che scatterò tutta la vita senza mai rivedere gli scatti per me andrebbe bene. A me interessa stare lì nel momento dello scatto, poi che ci siano le foto buone o no sarebbe indifferente.


Quindi l’esporre le tue foto ti interessa relativamente?

Immagino che ogni fotografo abbia anche il piacere di rendere pubblico il proprio lavoro

Sì però dove? Io negli ultimi anni ho chiuso pochissimi lavori, tra cui uno che ho fatto per 3 mesi a San Giovanni Li Cuti su dei ragazzi di quartiere che si chiama “Bagnanti”. Quello è uno spazio di Catania dove si raggruppano tutti i ragazzi di quartiere e si vivono l’estate. L’anno del covid, subito dopo il lockdown, ho iniziato a girare per 12-15 ore al giorno per 3-4 mesi, ho girato per tutta la città tornando anche a Li Cuti. Dopo qualche giorno mentre ero lì a scattare un ragazzino mi urla che non dovevo fotografare e un altro per tre mesi. Mi sono innamorato della loro vita.


Da questi scatti infatti si evince l’alto grado di intimità che sei riuscito a instaurare con loro, quanto è stato difficile guadagnarsi la loro fiducia?

R. nel momento in cui ha preso le mie difese mi ha fatto capire che potevo avere accesso. Io ho vissuto ragazzino da dietro lo zittisce dicendo che potevo continuare. Come con questo ragazzo, R., di circa 16 anni, inizia un rapporto di simpatia e amicizia e da lì a poco si crea un gruppetto con tutti i ragazzi più incasinati di Li Cuti e io li seguo nelle loro relazioni e innamoramenti con loro, senza cercare di educare. Da parte loro non c’è stato alcun tipo

di esibizionismo, continuavano a vivere normalmente la loro vita. Ovviamente facevano anche delle cazzate, le loro attività spesso illegali, ma c’era fiducia, probabilmente mi hanno riconosciuto come uno di loro. “Bagnanti” ha vinto diversi è stato apprezzato in maniera trasversale sia in ambito di foto documentaria che contemporanea. Questa cosa generalmente non accade perché un ambito tende a escludere l’altro e un mio amico con cui abbiamo vinto il Word Report Award mi disse “ma non ti sei fatto due palle a fotografare sti ragazzini?” e io gli ho risposto che assolutamente no perché attraverso loro ho rivissuto la mia adolescenza. Io provengo da questa famiglia umile, ho avuto un passato un po’ disgraziato e quindi attraverso loro ho rivisto tante cose che mi sono vissuto. Io non mi sono mai posto come educatore sociale nei loro confronti, l’unica cosa che mi sono permesso di dirgli è di usare il preservativo per evitare di restare genitori a 15 anni. Il lavoro è finito quando il gruppo si è disgregato alla fine dell’estate.


Oggi è possibile secondo te in un Paese come l’Italia vivere d’arte?

Proprio ieri parlavo con un mio caro amico, parlavamo del sussidio per artisti e operatori culturali di circa 1500 euro al mese che in Francia esiste da molto tempo. In questo momento io faccio fatica a sopravvivere, idem il mio amico, si chiama Pierpaolo Verdecchi, ha fatto un documentario stupendo dal nome “Babylonia mon amour”, durato 5 anni, su

un’occupazione di senegalesi a Barcellona, ha anche vinto dei premi ma le produzioni non sono interessate perché non c’è la macchina di sistema, perché ci sono rapporti di potere e di conseguenza non lavora. Spesso ci ritroviamo a fare lavori scadenti e anche mal pagati e tutto questo fa sì che poi mettiamo in dubbio il nostro lavoro a 40 anni e di conseguenza la nostra vita. Io penso che sarebbe giusto avere un sussidio al pari di quello francese, essere riconosciuto come artista o operatore della cultura in genere.


Questo numero è dedicato al tema delle “Frontiere”, il tuo lavoro ti ha portato a fare molte esperienze all’estero (Instanbul, Ecuador, Bulgaria, Algeria, ecc), qual è stata l’esperienza che ti ha colpito di più?

Mi sono ritrovato molto spesso a scattare sull’idea di confine, anche la Sicilia è un confine. Io mi sono trovato a Istanbul, ci ho vissuto, così come a Lampedusa a fotografare paesaggi, in generale sono luoghi in cui succedono delle cose magiche. Ma quell’incontro, quel confine tra culture diverse ce l’hai anche qua, il mio lavoro sulla San Berillo Junior era un incontro di culture, dove i ragazzini catanesi giocavano con quelli magrebini o asiatici o africani. Noi però non abbiamo ancora un processo di integrazione con queste persone come per esempio il melting pot in America. La vera società multiculturale è quella che si sperimenta nella strada e a farla sono proprio i bambini. L’idea di confine è veramente molto labile, a Lampedusa ero andato in un momento in cui non c’erano sbarchi ma io non volevo fotografare quello, volevo fotografare Lampedusa con un rimando a tutto quello che è passato da lì e quel lavoro non l’ho editato io, l’ha editato un mio amico che lavora in una casa editrice fotografica.


Esiste questo scambio di competenze?

Pensavo che ogni fotografo fosse geloso del proprio lavoro Spesso avere un confronto con persone di cui hai stima è importante. Tu magari ti fossilizzi su delle cose inutili. O magari c’è una foto che per me non vale niente e persone di cui ti fidi l’apprezzano e te la fanno rivalutare. Io le mie foto le faccio vedere alle persone più disparate, non devi essere per forza fotografo, ci sono persone per cui nutro una particolare fiducia a livello umano e che hanno una sensibilità, potrebbe essere pure il pescivendolo. A volte ti rendi conto che scegli delle foto e poi le rivedi l’anno dopo e cambi completamente la selezione perché

quell’effetto della “vicinanza” quando scatti viene influenzato ancora dalla sfera del ricordo, devi essere molto bravo, molto cinico e di solito se ti dà una mano una persona esterna ti aiuta a vedere cose che tu in quel momento non vedi. Io ad esempio ho tutta una serie che non mostro nei vari premi, tutti ritratti bellissimi, che non ho mai utilizzato ma con cui potrei

allestire una parete intera a una mostra.


A tal proposito mi viene in mente che ogni artista ha spesso nel cassetto il suo grande incompiuto, ossia quelle opere, magari monumentali, a cui lavora da una vita ma che non riesce mai a portare a termine rimanendo così perennemente inedite. Tu hai il tuo grande incompiuto?

Ho un lavoro che si chiama “Nortorio”. Me l’ero immaginato così: Nor è la negazione, Torio è un minerale che ha la stessa reazione del processo fotografico, ma Nortorio è il nome di un cane. Quel mio amico regista di cui ti dicevo ha una casa in campagna e tempo fa mi invitò ad andarci a vivere, così per due anni sono stato lì. A un certo punto iniziano ad arrivare dei cani maremmani che venivano a bivaccare lì la sera. Le notti di luna piena da questa casa piena di finestre vedevo questi cani e ce n’era uno di cui ero innamorato e

l’ho chiamato Nortorio. Gli ho fatto tutta una serie di foto. Nortorio è un lavoro di liberazione, di ricerca, che dentro ha tutto e che in qualche modo è il filo conduttore di una mia fotografia più intima, più mia. Però è un lavoro che non ho mai finito e neanche mai continuato. Poi adesso spero uscirà un altro lavoro: dedicato a un amico morto qualche anno fa, conosciuto quando facevamo entrambi gli assistenti per un fotografo. Due anni fa mi chiama un mio amico e mi dice che l’aveva chiamato il fotografo e gli aveva dato tutta una serie di diapositive vecchie, scadute mai impressionate. che non sapeva che farci e me le

cede. Poco dopo andai sui crateri silvestri, subito dopo la pandemia, e con una macchina stupida avevo messo dentro questi rullini, quel giorno arrivano delle suore vestite di bianco, su questi crateri con la nebbia e tutto il resto, e inizio a scattare e a fare un viaggio per la Sicilia con la mia vecchia Opel Kadett, mi sono rimasti 4 rullini e vorrei girare un po’ Palermo, però ho quasi finito e quello sarà una mostra-libro sulla memoria di questo mio amico che sbobinava le pellicole. Nortorio invece è ancora più intimo, è un lavoro che si aggancia ad un genere di fotografia che ha come padri Ander Petersen, il primo Antoine D’Agata, Michael Ackerman e altri che vivono la fotografia come negazione stessa del rapporto con la fotografia definita classica. Però anche se ho delle tracce di Nortorio, questo è un lavoro che non so mai se farò, anche perché farlo seriamente vorrebbe dire abbandonare tutto il resto, sarebbe una scelta di vita.


Qual è lo stato dell’arte attuale della fotografia?

Oggi la fotografia è diventata molto concettuale, soprattutto quella che va per la maggiore, in quest’ambito il maestro della fotografia italiana è Luigi Ghirri. Storicamente i maestri sono stati lui e Mario Giacomelli. Oggi il post-Ghirri è molto in voga, la sua fotografia era molto concettuale, Giacomelli invece era più sanguigno, un pazzo scatenato che si costruiva le macchine fotografiche, non gliene importava nulla della tecnica, però poi faceva uscire queste cose pazzesche. La mia fotografia è molto classica, arriva dai grandi classici come

Bresson, quello che apprezzo di più come fotografo è Koudelka, fotografo slovacco. Attualmente secondo me c’è un ritorno di attenzione a un determinato tipo di fotografia classica, quindi anche per i miei lavori si trova spazio. La mia fotografia parla molto di me e forse vengono apprezzati i miei soggetti ma anche il mio modo in cui li vedo e questa cosa mi dà la forza, anche in condizioni economiche difficili, di andare avanti. È un momento molto complesso per me dal punto di vista professionale, sto meditando proprio di smettere.


Dici così ma alla fine non si può non rispondere a una vocazione come io credo sia la fotografia per te.

Ma ho tanta stanchezza. Il problema della mia vita, che poi rifletto anche nelle foto, è il contrasto. La fotografia in bianco e nero americana è piena di grigi, quella occidentale un po’ meno, ci sono molti più contrasti, la mia fotografia riflette il contrasto, di grigi ce ne sono veramente pochi, perché è un po’ come la vita, come dire che è fatta di forti contrasti.

Quindi magari domani mi innamoro di quella storia là e la seguo, stacco il telefono, non voglio sapere più niente di lavoro, mi vendo pure la seconda macchina fotografica per continuare a pagare l’affitto e seguire questa storia o magari scelgo di non smettere. Se guardi i miei allievi, insegno storytelling, siamo alla fine del percorso e quest’anno è tutto tranne che storytelling, sembra un corso di fotografia psicologica, li metto in discussione fino al punto di crisi, cosa che ha fatto il mio professore di etnografia con me. Quest’anno faremo la mostra di fine percorso e ci sono dei lavori bellissimi, con un livello molto alto e questo è l’anno in cui li ho trattati male, per farli crescere. Ora non so se loro parleranno altrettanto bene di me!


Se ti chiedessi di consigliarmi un artista da intervistare per il prossimo numero chi sceglieresti e perché?

Valeria Sanfilippo, non conoscevo i suoi lavori, sono andato a una sua mostra e mi è piaciuta molto.

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